Il 2023 si è appena concluso, ed abbiamo intervistato Roberto Menotti, Editor di Aspenia Online e Senior Advisor – International Activities presso Aspen Institute Italia per parlare di alcuni dei temi di politica internazionale più rilevanti per l’anno appena trascorso e per delineare alcuni spunti di riflessione per questo 2024.

Per gli Stati Uniti l’anno appena iniziato presenta già molti dossier da affrontare, sia in politica interna sia, soprattutto, in politica estera. A livello internazionale quali sono stati i tratti distintivi dell’amministrazione Biden?  E che bilancio se ne può fare?

Joe Biden è arrivato alla Casa Bianca con un mandato piuttosto chiaro in politica estera: ripristinare un buon livello di ordine e prevedibilità, ricucendo i rapporti con gli alleati tradizionali e al contempo elaborando strategie più efficaci per il contrasto delle ambizioni cinesi. Ha perseguito questi obiettivi con una certa coerenza, puntando soprattutto al classico metodo multilaterale incentrato sul ruolo centrale degli USA con rapporti “a raggiera” – dunque una combinazione di multilateralismo e Realpolitik, potremmo dire. Come qualsiasi amministrazione, anche quella di Biden ha poi dovuto affrontare le crisi del momento, a cominciare da quella russa in Ucraina, che è di fatto stata (correttamente) interpretata come una grave minaccia alla sicurezza europea nel suo complesso; qui i risultati sono stati molto positivi, almeno come capacità di rilanciare la NATO (che nel frattempo ha attirato due Paesi scandinavi tradizionalmente neutrali) e mantenere abbastanza compatto il fronte transatlantico. In parallelo si sono rinsaldate le alleanze, più o meno formali, nella vasta regione indopacifica, cercando di agganciare gradualmente anche l’India (che può considerarsi un grande ago della bilancia degli equilibri nel Pacifico e nell’Oceano Indiano per il prossimo futuro). Il bilancio è dunque positivo, quantomeno fino alla più recente crisi di Gaza, che invece ha visto faticare Washington sul piano diplomatico nel tentativo di esercitare una qualche influenza su Israele e simultaneamente di coltivare un dialogo costruttivo con i regimi arabi. Qui il bilancio è decisamente più negativo, sebbene gli sforzi ci siano stati e sono tuttora in corso. Probabilmente, c’è un insieme di presupposti che andranno ripensati: il rapporto con Israele non è quello di alcuni anni fa, soprattutto con un governo spigoloso come quello di Netanyahu; la tradizionale alleanza (per quanto sempre problematica) con l’Arabia Saudita è meno affidabile e meno funzionale agli interessi della stabilità regionale di quanto molti pensassero; e infine non è scontato che l’isolamento quasi completo dell’Iran sia realmente possibile né forse conveniente, per Washington e per la regione mediorientale.

Come europei, dobbiamo comunque riconoscere che l’amministrazione Biden ha riportato il rapporto transatlantico sui binari di una collaborazione pragmatica che è tuttora fondata su valori comuni. Ciò vale sia nel campo della sicurezza sia in quello economico, visto che nei quattro anni di Trump si erano accumulati dispute, malesseri e sfiducia reciproca in tutti i settori.

Secondo molti analisti e commentatori un eventuale ritorno di Trump alla presidenza (che sembra ogni giorno più plausibile) si colloca al primo posto tra le escalation temute per il 2024. Allo stesso tempo Joe Biden, che ha annunciato di voler concorrere per un secondo mandato, deve fare i conti con un calo di popolarità ormai costante. Come cambierebbe lo scenario internazionale in caso di vittoria repubblicana? 

Anche a seguito dell’esperienza del 2017-2022 dobbiamo aspettarci in quel caso una forte spinta verso una politica estera “transattiva”, cioè fondata su una valutazione caso per caso degli interessi americani – in una modalità che personalmente ho trovato di corto respiro, dunque neppure realmente vantaggiosa dalla prospettiva di Washington. Ciò implica una grave difficoltà nella gestione delle maggiori alleanze, a cominciare da quella transatlantica. In realtà, è arduo perfino valutare in modo razionale alcune delle scelte compiute da Trump in passato, che quasi certamente tornerebbero alla ribalta: la sua è una visione quasi totalmente personalistica della politica, che sminuisce apertamente il ruolo del “gioco di squadra” perfino all’interno dello stesso esecutivo americano e punta moltissimo sui rapporti diretti al vertice tra Capi di Stato e di governo.

Lo scenario internazionale sarebbe dunque influenzato in modo profondo da questa sorta di deragliamento della politica estera americana, con forti elementi di imprevedibilità. Data la complessità dei rapporti di interdipendenza globale, e i molti fattori di instabilità già presenti, non è certo una prospettiva incoraggiante.

Dalle presidenziali USA potrebbe dipendere in parte anche l’evolversi della politica estera cinese; Trump ha inaugurato una stagione di rapporti conflittuali con il Dragone, ed anche con l’attuale amministrazione, i rapporti tra Washington e Beijing rimangono tesi. Cosa possiamo aspettarci sul fronte dei rapporti Cina-Stati Uniti per il 2024?

C’è una differenza di fondo tra l’approccio di Trump verso la Cina e quello di Biden: nel primo caso abbiamo avuto una linea erratica oltre che aggressiva sul piano delle sanzioni economiche, e comunque una linea unilaterale; con Biden si è visto un approccio assai più articolato e prudente, pur in un contesto di forte competizione tecnologico-industriale e di contenimento militare. L’aspetto forse finora sottovalutato è comunque che i rapporti di interdipendenza dovuti alle lunghe catene del valore – che in alcuni settori coinvolgono anche la UE e il Giappone, oltre a Taiwan nel campo dei microchip – sono davvero profondi, e dunque difficili da spezzare. In tal senso, servirà maggiore pragmatismo sia da parte di Washington che di Pechino se si vorranno evitare gravi danni economici per tutti. Va comunque sottolineato che, intanto, è cambiata un’aspettativa molto diffusa fino a un paio d’anni fa: che la Cina fosse destinata a diventare la più grande economia al mondo – cosa che probabilmente non accadrà, soprattutto se i trend di crescita del PIL più recenti si consolideranno. Tale dato di fondo, per quanto largamente simbolico visto che la Repubblica Popolare resta ovviamente una superpotenza economica, potrà influenzare anche le considerazioni strategiche e di sicurezza, fornendo qualche elemento di autostima agli USA e a tutto il mondo democratico-liberale.

Indipendentemente da chi risulterà vincitore a novembre, in agenda ci sono alcuni temi importanti da affrontare, i più urgenti sono sicuramente la guerra tra Israele ed Hamas (ed i conseguenti rapporti con i paesi arabi e con l’Iran) e l’appoggio all’Ucraina. Come potrebbe mutare il posizionamento strategico statunitense in questi due scenari?

Il presidente Biden ha cercato, faticosamente e con risultati per ora modesti, di frenare la corsa verso un ampliamento del conflitto militare con Israele come epicentro, dopo il 7 ottobre scorso; va detto che ha ricevuto scarso appoggio concreto dagli alleati europei e dai (presunti) alleati regionali. Nel caso di un secondo mandato, immagino davvero che questi tentativi proseguiranno comunque, essendoci ben poca alternativa a una continua pressione “moderatrice” su Israele accompagnata dall’utilizzo di tutti i canali diplomatici disponibili con Paesi come Egitto e Arabia Saudita. Nel caso di una vittoria di Trump questa linea di azione sarebbe abbandonata e anzi stravolta, anche se è difficile pensare al semplice ritorno all’impianto degli “Accordi di Abramo”, che presupponevano un netto avvicinamento Tel Aviv-Ryiad in funzione soprattutto anti-iraniana – tutti quei parametri sembrano saltati.

La questione russo-ucraina è entrata in una fase dolorosa di apparente stallo militare – anche se non dovremmo sottovalutare la possibilità di successi militari anche improvvisi da parte ucraina man mano che strumenti più avanzati vengono messi in campo, in particolare in Crimea, nel Mare d’Azov e lungo l’intera costa del Mar Nero. Certo, Washington fatica a garantire un flusso di aiuti adeguato alle aspettative di Kyiv, e la situazione politica interna agli USA non sarà propizia neppure in caso di conferma di Biden alla Casa Bianca, vista la probabile configurazione del Congresso. Anche qui, se vincesse Trump dobbiamo attenderci un cambio di rotta quasi radicale, visto che l’ex Presidente ha già annunciato chiaramente non ritenere che il sostegno a Zelensky sia nell’interesse americano e di voler negoziare con Putin. Credo che dovremmo prenderlo alla lettera. E se questa linea prevarrà, si porrà un enorme problema per gli europei, poiché verremmo lasciati soli a fronteggiare una Russia frustrata ma aggressiva.

La situazione mediorientale è più che mai epicentro di instabilità, già qualche anno fa in un volume curato da lei e da Jessica Carter si parlava di un “grande squilibrio”. Come si può leggere la situazione alla luce degli sviluppi (anche interni al mondo arabo) in questa area geografica?

In effetti la tesi che sostenevamo in quel lavoro è che lo squilibrio riguarda la regione in sé, a prescindere dall’influenza di attori esterni come gli USA, la UE, la Cina o la Russia. Il problema di fondo, in altre parole, sta proprio nella mancanza di una dinamica di dialogo politico-strategico che, in particolare, consenta di integrare Israele in un contesto quasi totalmente arabo, ma anche l’Iran in quanto Paese sciita in un contesto regionale a larga maggioranza sunnita, e la stessa Turchia come “media potenza” non araba che persegue comunque progetti ambiziosi. La situazione interna dei Paesi arabi aggrava l’instabilità complessiva, poiché nessuno dei regimi attualmente al potere gode di grande legittimità né riesce a offrire buone prospettive di sviluppo socio-economico – e, come si è visto drammaticamente nel 2011, il malcontento è forte e può esplodere in qualsiasi momento. Il conflitto di Gaza conferma queste tendenze pericolose, visto che quasi tutti i leader arabi hanno sfruttato l’occasione per accusare Israele (e in certa misura gli USA) di essere i responsabili primari della violenza in Palestina e dei rischi di ulteriore escalation, distogliendo così l’attenzione dalle gravi inefficienze dei governi della regione e dal loro carattere autoritario (in varie gradazioni).

Come pensa che si evolveranno i rapporti tra l’Occidente e il cosiddetto Global South? Torneremo a due blocchi contrapposti? E in questo caso, gli USA sarebbero pronti (o disponibili) a guidare il blocco occidentale?

Intanto ritengo che il concetto di Global South sia molto vago e di scarsa rilevanza pratica, soprattutto in campo economico; ma è anche un concetto pericoloso per le sue implicazioni politiche, alludendo appunto a una spaccatura in blocchi contrapposti che non ha ragione di essere. Anzitutto, non va confuso con l’idea originaria dei BRICS, che era fondata sulla comprovata capacità di crescita rapida di alcuni Paesi “emergenti”: attualmente i membri originari dei BRICS sono tutti in notevole difficoltà economica, e lo stesso “modello cinese” sta mostrando i suoi molti limiti in assenza di improbabili riforme politiche. Quanto ai nuovi membri del raggruppamento, le prospettive di crescita sono perfino peggiori, se si pensa che parliamo di Paesi come Egitto, Etiopia e Iran (non esattamente economie che attirano massici investimenti esteri), o di regimi molto particolari (“rentier states” fondati sulle risorse fossili) come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Ora, è vero che un gruppo del genere dispone complessivamente di grandi risorse finanziarie e naturali, come anche di un grande potenziale commerciale, ma la sfida per loro è utilizzare al meglio quelle risorse per ottenere influenza politica su scala globale; e se si guarda ai grandi flussi finanziari o alle capacità di innovazione tecnologica siamo ancora lontani da una specie di “parità” con i Paesi OCSE. C’è poi la delicata questione dei modelli politici, visto che il Global South sembra contestare frontalmente la superiorità dei sistemi di marca occidentale: qui è necessaria una valutazione equilibrata, poiché in effetti non si può dare per scontata una superiorità morale o culturale, ma al momento non si può neppure dubitare del fatto che i diritti civili, l’accesso al welfare e ai sistemi sanitari siano assai meglio garantiti nei Paesi OCSE. Del resto, lo dimostrano in modo macroscopico i flussi migratori. Dovremmo insomma essere un po’ meno pessimisti sul futuro dei modelli democratico-liberali di mercato, pur esercitando una giusta autocritica – che è poi un vero punto di forza delle “società aperte”.

In ultima analisi, non credo comunque che ci stiamo avviando verso un assetto globale caratterizzato da una netta frattura tra “Nord” e “Sud”. I molti legami di interdipendenza attraversano – per fortuna – questa presunta spaccatura, e conviene anzitutto ai Paesi economicamente meno avanzati proseguire il percorso di integrazione nelle catene del valore internazionali. Non dimentichiamo che (secondo i molti dati disponibili da fonti come FMI e Banca Mondiale) dalla pandemia sono proprie le economie OCSE ad essere cresciute complessivamente di più, mentre i Paesi più poveri e anche quelli “emergenti” si sono rivelati più fragili e vulnerabili agli shock energetici, alimentari, climatici.